Stanotte sono contento di pubblicare la testimonianza di Pasquale, mio grande amico, che ha vissuto l’esperienza di volontario in Kosovo diversi anni fa.
Ho deciso di pubblicare questo suo racconto per vari motivi: il primo è che a Pasquale voglio veramente un sacco di bene; è quindi per me un onore possedere nel mio blog il suo racconto, anche solo come ricordo; il secondo motivo riguarda il fatto che, nonostante Pasquale non abbia avuto affatto una vita facile fin'ora, quando lo incontro, è sempre in grado di stupirmi con la stessa forza contraddittoria e combattiva con la quale vive, esiste e resiste le giornate.
Come moltissime persone del resto. Siamo circondati da persone così.
Il fatto è che di molte di esse se ne parla troppo poco forse perché appartengono a quell'Italia con -i-calli-alle-mani-, lavoratrice e onesta... ma considerate, da una certa élite conformista di persone, troppo semplici, troppo comuni per non dire elementari... contrastanti: nei loro pregi... nei loro difetti (nei loro errori) e anche per questo, a volte, giudicate in modo troppo precipitoso e superficiale.
Ho deciso di pubblicare il suo racconto (che tra l'altro farà parte di un giornalino creato appositamente per la celebrazione del venticinquesimo anno di fondazione di una nota associazione solidale della mia zona... dove tra l'altro Pasquale è protagonista da vent'anni... ) perché è di una semplicità bellissima, toccante ma soprattutto umana.
E io ho un debole per tutti coloro che si servono impavidamente dell'umanità che possiedono per vivere, esistere eresistere la vita... consapevoli perfino di rimetterci.
Quando, nell’aprile del 1999, mi è stato chiesto dalla mia Associazione se fossi disponibile a prendere parte alla missione “Arcobaleno” per il Kosovo, ho accettato senza esitazione, spinto dal desiderio di poter aiutare la popolazione di Kosovari costretta a lasciare le proprie case e, in particolare, i bambini.
Sono partito il 14 aprile dove, a Rimini, mi sono unito alla colonna mobile dell’Emilia Romagna, un gruppo di volontari provenienti da varie organizzazioni di volontariato della regione. Abbiamo poi raggiunto il porto militare di Brindisi, dove siamo stati imbarcati sulla portaelicotteri “San Giorgio” per Durazzo, per poi arrivare, dopo 15 ore di viaggio, al campo Kukes 2, in Albania, a 5 km dal confine con il Kosovo.
Il campo ospitava novemila persone e altre novemila, anch’esse bisognose di aiuto, sostavano nelle vicinanze. Noi volontari eravamo in tutto una settantina e cercavamo di fare il possibile per aiutarli tutti.
Il mio primo incarico durante quella settimana è stato ultimare il montaggio delle tende per i profughi, iniziato dagli alpini. C’era chi seguiva il settore logistico, chi quello sanitario, e chi effettuava censimenti. Ci occupavamo anche di distribuire i generi di prima necessità (cibo, pannolini, coperte, abiti). Nel tempo che rimaneva durante la giornata, ci occupavamo di mantenere in ordine il campo.
A distanza di 14 anni, ricordo ancora il dramma di quella gente, costretti a lasciare le proprie case senza nemmeno il tempo di prendere le proprie cose e mi è impossibile dimenticare le loro storie tristi. Ragazze costrette a tagliarsi i capelli e a camuffarsi da uomo per non essere violentate. Un uomo che si è visto uccidere al confine due dei suoi tre figli, perché non aveva i soldi sufficienti per farli uscire tutti. Un bimbo di 5 giorni, nato per strada, salvato in extremis dai medici.
Nonostante questi interminabili sette giorni siano stati molto pesanti sia moralmente che fisicamente, non posso dimenticare il sorriso di ringraziamento di quel bambino che ho liberato dal fango in cui era caduto mentre giocava in una pozzanghera, o gli occhi dolcissimi di quella bimba con cui dividevo la colazione la mattina. Mi rimane impressa nel cuore l’unica lingua usata dai bambini per ringraziarci: i loro occhi e il loro sorriso, che mi hanno fatto capire che è valsa la pena fare tanta strada e tanta fatica.
Scritto da Pasquale, muratore.
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