Lo vedete questo portone in ferro nella foto?
Prima di sapere cosa si trova dall'altra parte di esso, devo fare qualche passo indietro e raccontarvi di una bambina incontrata per caso all'aeroporto di Addis Abeba. La piccola bambina con le treccine ed il vestitino rosa, molto probabilmente etiope, era tenuta in braccio amorevolmente da un adulto, sicuramente europeo, brizzolato ed in jeans.
Ci stavamo apprestando a fare il check-in, eravamo in coda in attesa presso la nostra compagnia aerea, quando mi guardai intorno e notai, poco distanti a noi, questo signore brizzolato con in braccio la bambina che dormiva serenamente.
Pensai subito che fosse una bambina adottata.
Una sera invece uscii a cena. Mi trovavo ad Addis Abeba, all'interno del bellissimo locale notai attorno ad un tavolino, poco distante a me, una famiglia olandese, un ragazzo e una ragazza sulla trentina ed un'altra coppia sulla cinquantina. Vi era poi una piccola culla con all'interno un bambino, avrà avuto qualche mese, pronto anche lui, pensai, a partire ben presto per una terra lontana, così da intraprendere il suo primo viaggio intercontinentale attraversando prima il Mediterraneo poi le Alpi, per poi atterrare ad Amsterdam e crescere ancora.
Una mio caro amico un giorno mi disse che spesso si è trovato in crisi nel corso della sua vita, proprio per il fatto di pensare frequentemente al senso di colpa che, col tempo, era cresciuto in lui scaturito proprio per aver adottato suo figlio. Il pensiero di averlo portato via dalla sua terra d'origine lo faceva spesso riflettere e star male.
Quando l'ascoltai rimasi sorpreso.
Del mondo delle adozioni infatti, ho sempre dato importanza solo a determinate "cose", accorgendomi, dopo avergli parlato, di averne sottovalutate nel frattempo molte altre.
Ci confrontammo quindi delicatamente e trovammo ben presto un compromesso.
Capimmo che la conclusione stava tutta racchiusa in una parola; in quel suo figlio che l'ha circondato nel tempo, chiamandolo tutti i giorni papà. In quell'amore con la quale ha circondato poi a sua volta lui suo figlio; dal primissimo istante che lo vide fino ad oggi, studente Universitario in Italia.
Quando lo raccolse da terra per prenderlo in braccio stringendolo forte, per la prima volta, dopo un'interminabile attesa ed un lunghissimo viaggio, nel cortile dietro a quel portone impresso nella fotografia; all'interno di quell'orfanotrofio nato negli anni della guerra per far fronte a tutti i bambini rimasti orfani o abbandonati, per merito di una straordinaria donna che ho avuto l'onore di conoscere..
Dietro quel portone c'è un orfanotrofio uguale a tanti orfanotrofi di una megalopoli del sud del mondo.
Ci sono decine e decine di bambini e bambine pronti a lasciare la propria terra.
Essa rimarrà per anni nascosta in un cassetto chiuso a chiave nel loro cuore ed un giorno, forse, saranno proprio loro a chiedere di aprirlo a qualcuno una volta adolescenti, una volta ragazzi; e lo faranno magari davanti alla televisione, a cena, di sfuggita tra un compito e l'altro, al parco, o di ritorno dall'allenamento in macchina con la testa ancora bagnata dalla doccia.
Chiederanno semplicemente di tornare a scoprire la propria storia. Di andare a vedere.
Che questo desiderio poi nasca ad Amsterdam, Roma, Londra o in un qualsiasi altro luogo del mondo non ha molta importanza.
Mi trovavo davanti a quel portone solo poche settimana fa, in attesa che arrivasse a prenderci il pick-up.
Fui il primo ad uscire rimanendo qualche minuto al centro della piccola stradina stretta ed impolverata; scattai quindi qualche foto ma soprattutto mi concentrai ad ascoltare attentamente tutto quello che proveniva da dietro quel portone in ferro. Tutti quegli incroci di voci, di urla, di sghignazzi.
Provai delle forti sensazioni difficili da descrivere..
..ebbi la certezza che quei bambini erano attesi, protetti, preziosi, VIVI.
Forse salvi.
Erano pronti a partire per crescere ancora.
Prima di sapere cosa si trova dall'altra parte di esso, devo fare qualche passo indietro e raccontarvi di una bambina incontrata per caso all'aeroporto di Addis Abeba. La piccola bambina con le treccine ed il vestitino rosa, molto probabilmente etiope, era tenuta in braccio amorevolmente da un adulto, sicuramente europeo, brizzolato ed in jeans.
Ci stavamo apprestando a fare il check-in, eravamo in coda in attesa presso la nostra compagnia aerea, quando mi guardai intorno e notai, poco distanti a noi, questo signore brizzolato con in braccio la bambina che dormiva serenamente.
Pensai subito che fosse una bambina adottata.
Una sera invece uscii a cena. Mi trovavo ad Addis Abeba, all'interno del bellissimo locale notai attorno ad un tavolino, poco distante a me, una famiglia olandese, un ragazzo e una ragazza sulla trentina ed un'altra coppia sulla cinquantina. Vi era poi una piccola culla con all'interno un bambino, avrà avuto qualche mese, pronto anche lui, pensai, a partire ben presto per una terra lontana, così da intraprendere il suo primo viaggio intercontinentale attraversando prima il Mediterraneo poi le Alpi, per poi atterrare ad Amsterdam e crescere ancora.
Una mio caro amico un giorno mi disse che spesso si è trovato in crisi nel corso della sua vita, proprio per il fatto di pensare frequentemente al senso di colpa che, col tempo, era cresciuto in lui scaturito proprio per aver adottato suo figlio. Il pensiero di averlo portato via dalla sua terra d'origine lo faceva spesso riflettere e star male.
Quando l'ascoltai rimasi sorpreso.
Del mondo delle adozioni infatti, ho sempre dato importanza solo a determinate "cose", accorgendomi, dopo avergli parlato, di averne sottovalutate nel frattempo molte altre.
Ci confrontammo quindi delicatamente e trovammo ben presto un compromesso.
Capimmo che la conclusione stava tutta racchiusa in una parola; in quel suo figlio che l'ha circondato nel tempo, chiamandolo tutti i giorni papà. In quell'amore con la quale ha circondato poi a sua volta lui suo figlio; dal primissimo istante che lo vide fino ad oggi, studente Universitario in Italia.
Quando lo raccolse da terra per prenderlo in braccio stringendolo forte, per la prima volta, dopo un'interminabile attesa ed un lunghissimo viaggio, nel cortile dietro a quel portone impresso nella fotografia; all'interno di quell'orfanotrofio nato negli anni della guerra per far fronte a tutti i bambini rimasti orfani o abbandonati, per merito di una straordinaria donna che ho avuto l'onore di conoscere..
Dietro quel portone c'è un orfanotrofio uguale a tanti orfanotrofi di una megalopoli del sud del mondo.
Ci sono decine e decine di bambini e bambine pronti a lasciare la propria terra.
Essa rimarrà per anni nascosta in un cassetto chiuso a chiave nel loro cuore ed un giorno, forse, saranno proprio loro a chiedere di aprirlo a qualcuno una volta adolescenti, una volta ragazzi; e lo faranno magari davanti alla televisione, a cena, di sfuggita tra un compito e l'altro, al parco, o di ritorno dall'allenamento in macchina con la testa ancora bagnata dalla doccia.
Chiederanno semplicemente di tornare a scoprire la propria storia. Di andare a vedere.
Che questo desiderio poi nasca ad Amsterdam, Roma, Londra o in un qualsiasi altro luogo del mondo non ha molta importanza.
Mi trovavo davanti a quel portone solo poche settimana fa, in attesa che arrivasse a prenderci il pick-up.
Fui il primo ad uscire rimanendo qualche minuto al centro della piccola stradina stretta ed impolverata; scattai quindi qualche foto ma soprattutto mi concentrai ad ascoltare attentamente tutto quello che proveniva da dietro quel portone in ferro. Tutti quegli incroci di voci, di urla, di sghignazzi.
Provai delle forti sensazioni difficili da descrivere..
..ebbi la certezza che quei bambini erano attesi, protetti, preziosi, VIVI.
Forse salvi.
Erano pronti a partire per crescere ancora.
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