Lo conoscete Jean Hamburger?
Non è il nuovo panino della Mc Donald's, è tuttavia un grande biologo francese famoso per aver detto semplicemente che non è vero che i diritti umani sono "diritti naturali", ossia impregnati nel DNA di tutti noi, scontati, connaturati all'uomo. Anzi.
In realtà egli ha notato, e lo spiega bene Antonio Cassese con il suo libro "Diritti umani oggi", che l'uomo "essere biologico" è portato ad aggredire e soverchiare l'altro, a prevaricare per sopravvivere e niente è più lontano da lui dell'altruismo e dell'amore per l'altro. Se "l'uomo naturale" nutre sentimenti di amore e tenerezza, è solo per procreare e proteggere la ristretta cerchia dei suoi consanguinei. Ed ancora, i diritti umani, sostiene Hamburger e ricopio Cassese, sono una vittoria dell' io "sociale" su quello "biologico", perchè impongono di limitare i propri impulsi, di rispettare l'altro: "Il concetto di diritti dell'uomo non è ispirato dalla legge naturale della vita, è al contrario ribellione contro la legge naturale."
Tradotto: I diritti umani sono una grandissima conquista dell'umanità. Peccato che la stessa umanità troppo spesso se ne dimentica.
Chi, come me, i diritti umani "ce li ha bene a cuore", non può altro che dare ragione ad Hamburger. Ammirandolo immensamente. Ma parlare di diritti, oggi, soprattutto per noi "occidentali" non è facile. Per noi intendo, che abbiamo tutto. A noi che tutto è dovuto. Noi che se vogliamo partire partiamo, noi che se vogliamo comprare compriamo, noi che se vogliamo protestare protestiamo, noi che se ci ammaliamo ci curiamo o meglio ci curano perchè ci aspetta di diritto.
Ecco: i diritti.
Quello che siamo, lo siamo grazie ad essi.
Ci provai, di sfuggita, senza accorgemene, qualche sera fa, quando andai a trovare un mio carissimo amico che suonava ad una festa.
Luigi, vero e proprio animale da palco, lo violenta da quasi trent'anni. Ribelle, sporco, vero; Allo stesso tempo elegante, di grande stile con mille storie alle spalle ed una voce poi da brividi, tipo Lou Reed o Iggy Pop per farvi capire. Profondissima, calda. E' sempre bellissimo parlare con lui, di qualsiasi cosa. Riesce sempre ad aprirmi gli occhi ed a farmi riflettere profondamente. Parlammo del più e del meno. Poi, ad un certo punto, mi sentii a disagio, dissi arrogantemente che c'erano troppi ragazzini ubriachi, troppo "niente", la festa mi sembrava di colpo "troppa", ero disgustato. Lo dissi senza un apparente motivo o meglio, "quei motivi" potevo tenermeli per me; Non mi accorsi, ancora una volta, che stavo commentendo lo stesso errore che oramai commetto da mesi. Ossia non tollerare.
In effetti non tollero più alcune cose del mio mondo se penso ad altri mondi. Perchè poi?
Perchè se per noi "occidentali" come dicevo, parlare di diritti non è facile, non parlarne invece è facilissimo. E questa cosa io non la sopporto.
Ma perchè non la sopporto nel momento meno opportuno? Proprio ad una festa? Quando tutti cercano di dimenticarsi i loro problemi? Quando tutti vogliono divertirsi e basta, lasciarsi alle spalle ribellandosi, a loro modo, al loro mondo. Questo non lo so.
Quello che so è che, in verità, la festa è solo un pretesto; Essa, c'entra poco. Come i ragazzini ubriachi o l'estenuante ricerca del lusso e dell'apparire che ci circonda. Il problema è più ampio, globale. Terribile.
Alla base delle mie barriere credo che ci sia l'essere circondati da tutto, il quale comporta ad anestetizzarsi a tutto. Ed io forse non voglio addormentarmi. Anzi. Voglio rimanere sveglio, sentire piuttosto dolore, rimanere vivo, resistere.
Luigi prima mi ascoltò, poi con le sue proverbiali verità e la sua limpidezza mi affrontò dicendomi che non posso pretendere che gli altri vedano le "cose" come le vedo io. A volta bisogna fermarsi. Accettare le "cose" così come vanno. A molta gente delle"cose" infatti non interessa nulla.
Non posso aspettarmi concetti, pensieri, comportamenti che seguano a ruota il mio pensiero. Non posso aspettarmi che le persone mi diano sempre ragione. O perlomeno facciano finta di darmene pensando in verità a tutt'altro.
Non posso accusare il mondo per degli scivoloni, delle sviste, pur sapendo che quegli scivoloni, quelle sviste riguardano la dignità delle persone, l'uguaglianza, il rispetto.
Tuttavia a me, il mondo, sembra dannatamente ingiusto e capovolto.
Ed a questo pensavo ieri, sui gradini della basilica di Santa Maria Assunta a Camogli, mentre finivo di leggere il libro di Cassese e mi pregustavo l'inizio di "Venuto al mondo" della Mazzantini, quando si avvicino' a me un signore sulla ottantina.
" Mi siedo qui...posso?? " mi chiese
Alzai gli occhi, vidi un vecchiettino vispo, arzillo, brioso. Mi conquistò subito.
" Prego! Assolutamente " gli risposi
"Quanto costa?" continuò " mi sà che siete voi che dovreste pagare me.."
Sorrisi.
Camogli è bellisima. Non ci sono parole.
Mi aspettavo il sole, era invece ricoperta di nubi, per questo forse, ancora più bella. Non c'era caos, essendo lunedi si stava bene, vivibile, poca gente; Il mare poco mosso, il rumore delle onde, il vento ed una ruspa a cingoli che cercava di sistemare la spiaggetta, davanti a noi, composta da ghiaia, il suo fracasso come sottofondo, che soffocava terribilmente i rumori da cartolina e che infastidiva tutti.
"Chi di fama vuol morire a Camogli deve venire..."
Continuava a ripetere Nandino. Questo il suo nome. Indossava un vecchio berrettino, un maglione spesso color blu, pantaloni bianchi, due scarpe nere. Portava un bastone per aiutarsi a camminare. Orgogliosissimo falegname in pensione, camoglino d'adozione da più di sessant'anni ma di origini abruzzesi. Tre figli, due uomini, una donna e sette nipoti "tutti-delle-menti-sia-i-maschietti-che-le-femminucce". Una moglie "con-l'ictus-sulla-carrozzina" ed una badante. Tutto sommato fortunata, aggiunsi io.
Nandino mi disse che le cose rispetto a quando era giovane sono cambiate molto "in meglio, se si cresce ricordandosi ogni tanto dell'amore e del rispetto".
Mi raccontò poi di lui, delle vite incontrate.
E mentre guardava il mare, fissando con non poca nostalgia le gambe nude delle turiste che ci camminavano felici d'inanzi commentando i gusti dei gelati in mano ai rispettivi felici fidanzati, mi raccontava della guerra.
Eh...la guerra. Come per tutti gli anziani che conosco, la guerra è un ricordo così impresso nelle loro menti, che quando la raccontano, non sembrano quasi esserci stati cinquant'anni a oggi.
Non sembrano quasi esserci mai stati gli anni '60, '70, '80.
Se non glielo chiedi, è difficile infatti che ti raccontino spontaneamente del '68, degli anni di piombo, dei Beatles, della Tv, della ricostruzione fino al boom. Invece della guerra parlano spontaneamente. Come se ce l'avessero ancora dentro, nel sangue, come se ne fossero a tutt'oggi ancora contaminati, ancora ubriachi.
Come se ogni mattina questi grandi anziani, appena svegli, uscissero presto da casa, allontanandosi per pochi minuti dalla loro routinaria quotidianità, e si recassero a timbrare il biglietto dei loro intimi ricordi di guerra nella vecchia ed annebbiata fabbrica della memoria, dietro l'angolo, rimembrando tutte le atrocità di quei terribili giorni; Per poi tornare alla vita quotidiana e poterli raccontare a qualcuno. Alla moglie, ai propri figli, ai nipoti, alla badante, ad un ragazzo seduto sotto la basilica di Santa Maria Assunta. Raccontare d'un mostro, trascinato fino ad oggi da ricordi resistenti alla vita, capace di rovinargli, irrimediabilmente, i migliori anni di essa. Ecco penso, cosa deve lasciarti la guerra.
" Eravamo poveri con la guerra. Quanti, quanti amici ho perduto! Troppi! Ora le persone sono fortunate e non lo sanno " mi disse.
E mentre lo ascoltai mi vennero in mente quei famosi diritti, ed il loro peso. La loro importanza. La voglia di difenderli e non dimenticarli anestetizzandoli in modo scontato.
Grazie ad essi io ero felicemente a Camogli, a vivere due giorni di vacanza spensierati, stavo ascoltando Nandino e poco prima stavo leggendo Hamburger che scriveva:
"...se gli uomini si accorgessero chiaramente che i loro diritti non sono un dono della natura ma una conquista permanente, una battaglia senza fine contro un ritorno alla condizione animale, una sorta di creazione attiva e quotidiana, una ribellione che dà alla vita il suo senso, la sua originalità, e la sua nobiltà, la nostra azione potrebbe mobilitare molte più persone, sarebbe più vera, più contagiosa e più efficace...".
E poi pensai a quelli come me. Orgogliosamente.
Quelli che non tollerano più "cose" del loro mondo se pensano ad altri mondi.
Che tirano in ballo i diritti, l'uguaglianza, le guerre, l'attivismo.
A coloro che si sentono obiettare a che cosa serva adoperarsi nel tuo piccolo se poi ci si ritrova continuamente alle prese con governi, sistemi economici, gruppi terroristici dimentichi dei più elementari diritti.
A coloro che a tale domanda rispondono raccontando una semplice storia, contribuendo a ridurre, come dice sempre Cassese nel suo libro, sia pure di una frazione infinitesimale, la sofferenza così diffusa nel mondo, rendendo meno opprimente il bilancio della nostra giornata.
Ricordare quindi l'ultima scena di quel gran romanzo in cui un uomo, in attesa di processo, viene trascinato di notte da due rappresentanti della legge in una cava di pietra, abbandonata e triste, e, prima di essere pugnalato a morte per colpe che non conosce, vede aprirsi una finestra della casa di fronte, come una luce che si accende d'un tratto, e affacciarsi un uomo che apre le braccia.
" Chi era? " si chiede colui che sta per essere ucciso
"Un amico? Un uomo di cuore? Uno che provava compassione? Uno che voleva portare aiuto? Era uno solo? Erano tutti? "
Forse a chi sta per morire, in una prigione, in un lager, in una miniera, in una camera di tortura, in una città devastata dalle bombe, in un vilaggio oppresso dalla siccità, può servire sapere che non è solo, che chi si affaccia alla finestra non è indifferente, che almeno protesterà.
E' assai poco. Ma fa morire meno sconsolati.
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