In pronto soccorso può capitare di tutto, non c’è storia; ogni giorno è una sfida, il lavoro spesso è frenetico, anche in un pronto soccorso come il mio, piccolo e di periferia, sempre più al limite della buona prestazione a causa delle poche risorse a disposizione spesso sproporzionate alle esigenze di massa. Ma noi ce la mettiamo tutta, ogni fottuto giorno, compresa la notte. E capita di urlare tra di noi, bestemmiare contro fato o destino, gioire per un intervento finito bene o guardandosi negli occhi e dirsi tutto e nulla e ricominciare da capo sempre. Ci sono volte in cui è impossibile non riflettere un attimo su certe situazioni, prima di ricoverarle intendo, trasferirle o dimetterle. Mi capita sempre meno purtroppo a dire il vero, forse certe cose iniziano a farsi sentire ma il nostro lavoro è magnifico proprio perché riesce a metterti, che ci piaccia oppure no, dinanzi a quelle misteriose profondità dell’animo umano. Sta a te poi scegliere se girarti dall’altra parte, facendo finta di nulla, o cercare di scovarle soffermandoti sull’umanità delle cose. Proiettare in un attimo scene di vita altrui nella tua e farla diventare qualcosa candidata a scuoterti forse per sempre. Beh, devo dire che a me è successo ancora un’altra volta la notte scorsa, quando tutte le risorse di quel piccolo pronto soccorso che dicevo prima, tra l’altro ancora più ridotte (essendo orario notturno) a causa delle “politiche di razionalizzazione”, hanno dato il massimo per salvare la vita ad un uomo. Ma al di là dell’aspetto tecnico-assistenziale correlate alla gravissima e abbastanza rara patologia annessa (uno shock cardiogeno da rottura del setto interventricolare con trombosi aortica…) che, nel nostro caso essendo un piccolo ospedale, prevede una stabilizzazione generale delle condizioni del paziente nel minor tempo possibile che permetta una successiva centralizzazione verso un centro maggiormente attrezzato d’intervento cardiochirurgico, ciò che più mi ha colpito di questa situazione è stato il modo in cui, tale signore, reagiva all’evolversi delle cose o meglio, all'accettazione della fine. Realizzava cognitivamente, nonostante le gravi condizioni, in modo molto lucido e chiaro, l’assoluta criticità del suo stato, un destino improvviso intento a regolare conti sconosciuti. Il signore dichiarava di non avere parenti, di non avere nessuno al mondo e di non voler avvisare nessuno. Non era vecchio, anzi, tra i cinquanta e i sessant’anni. Ciò mi ha colpito. Fino a che la corazza ha retto è andata così ma quando, poco prima di partire in piena notte su di una ambulanza per la cardiochirurgia, ci ha chiesto un telefono per avvisare una p-e-r-s-o-n-a.. in lui qualcosa è cambiato, qualcosa ha preso forma e luce in una fiammella intima e flebile. Una fiammella umana, fragilissima e spietata: la paura. La paura lo ha fatto piangere, il vuoto della solitudine ha fatto il resto. L’umanità delle cose si è teneramente rivelata, dentro a quelle quattro mura freneticamente illuminate, e ci ha spinto, in una forma superiore, difficilmente spiegabile, a unirci a lui. E non capita per tutti i pazienti, non crediate. Ho sperato con tutto il cuore che la persona dall’altra parte del telefono rispondesse ma la vita non è un film. No, non è un film.
VIVERESISTERESISTENDO è a cura di Daniele Tosca, infermiere
Questo blog è nato una ventina di anni fa! Ha fatto a cazzotti con i primi guestbook, i primi "siti", con i vari forum ed oggi è bullizzato dai social molto più "veloci" e alla moda.. ma tutto sommato, nonostante mille cose successe, qualche cicatrice e gli acciacchi del tempo, rimane ancora in piedi! Respect!
25 febbraio 2016
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